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LA MAMMA, IL REGALO PERFETTO PER OGNI NEONATO

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(Caro bebè, il post di oggi è dedicato a te, per dar voce al tuo messaggio ancora troppo inascoltato. Speriamo possa funzionare..)

Gentili genitori, nonni, baby sitter, educatrici, datori di lavoro e chiunque voglia fare un regalo al bebè,

al bando sonagli, ciucci, carillon, mobiles, cullette mobili, seggiolini sonori e luminosi, gattini di peluche che possono abbracciare, tigrotti morbidi che si scaldano nel forno per dare calore e confronto alla colichette del piccolo, capi d’abbigliamento super tecnici per mantenere la temperatura corporea!

Da oggi, anzi da sempre, per il nostro bebè non c’è regalo migliore e pluriaccessoriato della propria mamma.  Un’unica soluzione per tutte le sue necessità: nutrimento, affetto, calore, intrattenimento, stimolo, consolazione, protezione. 

Ebbene si, signore e signori la mamma ha tutto ciò che serve, la mamma è all inclusive:

ella è sempre disponibile, h 24, non servono batterie, solo qualche ora di sonno al giorno per averla sempre perfettamente funzionante (se la si lascia qualche ora di più a dormire può essere anche di buon umore e certamente più performante…). 

Mamma nutre: ella offre latte caldo, specie specifico (ovvero perfetto per il neonato) al bisogno, senza necessità di altra strumentazione (n.b. per un corretto mantenimento del rifornimento latte, trattare bene il capezzolo, richiedere più volte di attaccarsi e ciucciare a lungo con gusto, senza schiocchiare e se possibile ricercare un ambiente silenzioso e poco illuminato).

Mamma scalda: la sua temperatura corporea è perfetta per regolare quella del bebè, stando a contatto non ci saranno problemi di raffreddamento o surriscaldamento. Non ci si può sbagliare. Mamma si spoglia e si copre a seconda delle necessità in perfetta autonomia, di giorno e di notte. 

Mamma culla: al bisogno, autoregolando velocità e direzione, la mamma ondeggia, saltella, rotea, con l’utilizzo di tutto il corpo. 

(La funzione si è dimostrata perfetta per l’addormentamento, la consolazione, la prevenzione di rigurgiti e coliche, la stimolazione tattile e lo sviluppo del legame d’attaccamento). 

Mamma canta e parla: la mamma è capace di parlare e cantare, dotata di un sensore speciale entra in funzione con il pianto, il sorriso e i vocalizzi. Li legge come richiami per iniziare a gorgheggiare, narrare ciò che accade, cantare filostracche e canzoncine, fare buffi versi tendenzialmente acuti perché sa essere più apprezzati. 

(Ottima funzione per l’addormentamento, la noia, l’accompagnamento al cambio pannolino, il dolore e la frustrazione, la cura della relazione).

Mamma intrattiene: all’apice delle braccia che cullano è dotata di mani. Esse possono roteare, chiudersi, aprirsi, battere l’una con l’altra offrendo stimolo per la vista, l’udito, il tatto. 

Ottimi gadget per la consolazione, per i massaggi al pancino per la stitichezza, per le bottarelle sul sedere (ideali per l’addormentamento). 

In esclusiva per voi, le mani sono dotate di dita, strumenti perfetti per la rimozione di strani oggetti nel cavo orale del bebè, per la cura di unghie e capelli, per vestire e spogliare. 

Accessori di Mamma: Mamma è dotata di cavo orale e narici che possono intrattenere il piccolo durante la poppata. Sa sorridere e fare smorfie buffe che divertono, stimolano l’intelligenza e favoriscono lo sviluppo del legame d’attaccamento. 

Sulla testa possiede i capelli, ottimo anti stress: possono essere accarezzati, attorcigliati, tirati (senza esagerare altrimenti si rischia la caduta o il taglio netto), se sono lunghi Mamma li agita sul viso del bebè per scatenare ilarità.

Mamma può essere dotata di bracciali, orecchini, collane, occhiali per rendere più interessate l’esplorazione tattile, visiva e uditiva durante l’incontro. 

Perché tutto funzioni Mamma non dev’essere sovraccaricata di stress, deve essere confrontata, sostenuta, ascoltata, aiutata nelle faccende domestiche.

L’uso è consigliato dalla nascita fino ai 9 mesi per 24 ore al giorno.

(la funzione “scalda” è garantita anche quando la mamma è sotto carica).

Ridurre poi in modo graduale in base al bisogno e al piacere. 

E’ possibile la versione maschile, per tutte le funzioni, tranne “nutre”, per la quale è prevista una variante. 

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Mamma, chi è “tre”?

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Mamma, chi è “tre”?

Questa la domanda che mi ha rivolto Lea (3 anni), una mattina di dicembre.

Che 3 è un numero, Lea lo sa. Come contare fino a 3 anche. Così mi sono chiesta: “come posso dargli una risposta che le insegni qualcosa in più di quel che sa?”

Montessori ci dice spesso nei suoi testi che ciò che conta è mantenere vivo l’interesse e “sfruttare”, “prendere al volo” le domande dei bambini. Ovvero, quando la curiosità del bambino si posa su un argomento è l’occasione perfetta per parlarne e seminare, certamente il terreno si rivelerà fertile. 

Così ho letto quella domanda, come il momento opportuno per fare una breve ed attraente “lezione” di matematica. Ho preso un foglio e ho scritto 3 e poi ho improvvisato una sorta di racconto mentre scrivevo lentamente tutti i “protagonisti” :

“Ma 3 non è solo, vicino a lui c’è 2 e 4 che a loro volta hanno dei vicini. 1, 5. E poi c’è 6, 7,8,9 il più grande di tutti. lnsieme formano la famiglia delle unità.”

Poi ripentendo lentamente i numeri abbiamo messo i pallini sotto ciascun numero. Con i chicchi di riso, Lea ha riempito ciascun pallino, andando a svolgere un esercizio di conta dall’uno a nove. 

Il tutto è durato una decina di minuti, tempo massimo prima che il suo interesse venisse meno. 

Non occorre possedere materiale scientifico montessoriano per avvicinare a casa i bambini alla matematica, alla lettura o alla scrittura o alla geografia, anzi al contrario: il materiale didattico deve stare a scuola in mano a maestre formate per utilizzarlo al meglio. A casa, i piccoli, devono trovare materiale costruito, improvvisato e abbozzato da mamma e papà, che profuma di casa che sia caldo, domestico ed unico. 

Ciò che conta è invece la modalità con cui Montessori ci insegna ad insegnare: 

Non interrogare il bambino;

Incantarlo con la narrazione;

Mantenere vivo l’interesse non offrendo spunti di riflessione troppo complessi o troppo semplici, ma un po’ più difficili rispetto a ciò che il bambino già sa;

Essere semplici, profondi e scientifici contemporaneamente;

Adattare la lezione al ritmo e alla modalità più consona per quel bambino;

Ricercare sempre ordine ed eleganza nell’esporre il materiale.

Ciascun genitore può riuscirci, ascoltando il proprio bambino, lasciandosi andare alla propria fantasia e facendo propri strumenti di “lavoro” come ceci, cucchiai, pentole, spugne, spazzolini, terra, farina, fogli, colori e chissà cos’altro…

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“Ma che fai?!”

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Nina, 2014 “il porta spezie”

“Ma che cosa stai facendo..?” pensano mamma e papà, vedendo una figlia arrampicarsi su un porta spezie.

Ho ritrovato questa foto e ho pensato di condividere una riflessione. Nina, si era stufata di infilare i barattoli delle spezie nei fori (attività di sviluppo della manualità fine). Il suo interesse stava andando altrove: movimento, equilibrio, provare a rispondere alla domanda “riuscirò a salire qua sopra in piedi?”.

Noia e/o  frustrazione invitano i bambini a ripensare a ciò che hanno davanti:

“Mi sono stancato di pestellare…. adesso uso il pestello da microfono!”

“Non riesco ad infilare questa perla nel filo: lancio tutto!”

Questo pensiero, non lo rendono esplicito, ovviamente, e ciò che offrono all’adulto è solo il comportamento che ne consegue: il lancio di perle e filo, la cantata a squarciagola con il pestello e l’arrampicata!

La Montessori la chiamava umiltà, quella virtù del genitore e della maestra di rivedere un proprio progetto o una propria intenzione a favore del bisogno del bambino.

Il pensiero umile è: “Di ciò che stai facendo, che ti ho allestito e proposto con gioia ed entusiasmo, non te ne può importare di meno. Ora hai bisogno d’altro”.

L’altra virtù che Montessori, forse troppo fiduciosa nel genere umano, attribuiva all’adulto educante è la pazienza.

il pensiero paziente è: “Ora ti osservo per qualche istante “maltrattare” il  mio lavoro per capire dove diamine vuoi andare a parare….che cosa vuoi?”

Il bambino agendo mi dice delle cose, la mia predisposizione all’ascolto e all’accoglienza della sua estrosità, mi può far capire il suo volere.

Ora è tempo di agire.

La parola attenta ed amorevole può manifestarsi:

“Non hai più voglia di pestellare. Forse ti sei stancato. Riponi pestello e mortaio e cerca qualcos’altro da fare che ti interessi. Se ti torna la voglia di pestellare, sai dov è!”

“Sei stufa di infilare i barattoli delle spezie. Riponiamolo e usciamo, andiamo in giardino, potremmo arrampicarci un po’”

“Non riesci ancora ad infilare le perle nel filo. Non preoccuparti, vedrai che con un po’ di esercizio diverrai abile Riponiamo il lavoro insieme. Vuoi infilare questi bottoni nella scatola forata? o preferisci fare altro?”

Ma stava già cantando con il pestello e arrampicandosi, perché impedirglielo?

Il pestello non è un microfono e il porta spezie non è un rialzo. Il loro scopo è un altro. Confondere e liberamente interpretare gli scopi degli oggetti non è sempre possibile (se mi pettino i capelli con la forchetta come Ariel, non mi è consentito.. così come bere dal vaso dei fiori, giocare a palla con la sfera in vetro della neve…) e la capacità di discernere possibile da impossibile, pericoloso/innocuo, igienico/anti-igienico non può essere posseduta da un bambino piccolo (matura con il tempo), pertanto il pestello pestella e basta.

Per ogni azione un oggetto, uno spazio ed un tempo.

Indicare questi confini è responsabilità dell’adulto educante, scegliere cosa si ha voglia di fare è diritto del bambino.

 

 

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“Dimmi perche’ piangi!?” “Ma io non so parlare!!”

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Oggi parliamo di pianto. Quanto è frustrante il pianto inconsolabile di un bambino che ancora non sa comunicare in altro modo? Quanto ci si sente impotenti?

Proviamo a capire se ci sono delle strategie per gestire la situazione, ricordandoci sempre dell’enorme potere del contagio emotivo: se io sono calmo, trasmetto calma e genero calma; se sono irritato genererò irritazione.

Poniamo il caso di trovarci di fronte a Giuseppe, di anni uno.

Possiamo essere: la sua mamma o il suo papà, la sua tata, un nonno o una maestra.

Giuseppe piange, non ancora disperatamente ma piange. Sentiamo la responsabilità di mettere a tacere quel pianto.

Come?

Iniziamo con il provare a pensare di voler rispondere ad un bisogno, invece che voler modificare il comportamento del bambino.

Andando per esclusione, eliminiamo ciò che può risultare inefficace o addirittura dannoso.

Non serve….

…chiedere a Giuseppe di smettere di piangere;

…sgridarlo: piangere non è una colpa, ma una manifestazione del proprio sentire;

…lasciarlo solo: ne patirà la sua autostima e crederà di non essere amato.

Quindi che fare?

Facciamo una analisi graduale delle possibilità dell’origine del pianto di Giuseppe.

Primo livello

Indaghiamo il soddisfacimento dei bisogni primari:

-ha male? (è caduto? ha il ventre molto contratto? si è ferito? ha la febbre?)

-ha sete? (da quanto non beve? fa caldo?)

-ha fame? (da quando non mangia?)

-ha freddo? (tocco mani e piedi, schiena)

-ha caldo? (è sudato nel collo?)

-ha sonno? (da quando non dorme? come ha dormito durante il riposo precedente? sfrega gli occhi? si tocca le orecchie? china di lato la testa?)

Naturalmente capissi che una di queste può essere la causa del pianto, risolvo il bisogno, se non è possibile farlo nell’immediato lavoro per soddisfarlo e nel frattempo lo consolo e lo aiuto nella gestione della frustrazione: “Hai fame, lo so. Vieni in braccio a me, andiamo a preparare il pranzo”.

Giuseppe non piange più (o un po’ meno, perché ci stiamo dirigendo in cucina…).

Se non si tratta di un bisogno primario, Giuseppe piange ancora.

Quindi è necessario passare alla fase 2.

Secondo livello

Se Giuseppe piange ancora forse ha bisogno di contenimento, coccole, rassicurazione. Magari si sente disorientato, qualcosa lo spaventa (le luci, un suono, soffre dell’assenza della mamma).

E’ questo il momento per provare a cullarlo, accarezzarlo e tenerlo stretto fino a quando, soddisfatto e sazio dell’affetto ricevuto non darà segni di voler scendere a terra.

Ma magari Giuseppe non ha voglia delle coccole, non si da pace neanche in braccio.

Allora l’indagine necessita lo slittamento al terzo livello.

Terzo livello

Arrivati a questo punto ciò che può generare il pianto di Giuseppe è la noia.

Può essere che Giuseppe non trovi nulla nell’ambiente in cui si trova che desti il suo interesse.

In questo caso la sua fame è psichica. Vuole fare qualcosa di interessante.

Ecco necessario osservare l’ambiente e chiedersi: può Giuseppe in autonomia raggiungere e manipolare qualcosa di interessante che possa regalargli un’esperienza educativa?

Se la risposta è no, non mi resta che provare ad estinguere il suo pianto ponendo alla sua portata un materiale da manipolare o una semplice attività da svolgere:

-un cestino dei tesori

-una palla morbida

-uno strumento musicale

-due contenitori identici per travasare noci

-anelli in legno da infilare in un’asta rigida

-un po’ d’acqua in un catino da osservare, manipolare, travasare (se estate o in casa..).

Il pianto, che poi si trasformerà in parole, è sempre motivato è pertanto va accettato, accolto ed ascoltato.

Offrire ad un bambino assettato o assonnato un travaso e’ frustrante: egli smetterà di piangere solo per sfinimento, senza toccare o lavorare concentrato con il materiale proposto. Così dare da mangiare o invitare al sonno un bambino che vuole “lavorare” ovvero sfamare il suo bisogno di sapere e di crescere è inutile.

Se Giuseppe riceverà comprensione ed ascolto sarà poco nervoso e molto fiducioso nell’adulto che si occupa di lui.

Lentamente l’adulto può imparare a prevenire il pianto e leggere ed interpretare i segnali del bisogno che precedono le lacrime.

Per farlo occorrono “solo” due virtù, che la Montessori definiva pazienza ed umiltà.

 

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Mamma, ma tu muori?

little-girl-1894125_960_720“MAMMA ESISTE BABBO NATALE?”

“DOV’E’ E’ ANDATA LA NONNA QUANDO E’ MORTA?”

“TU MUORI? E IO? COSA MI SUCCEDERA’?”

Eran le nove al dilà del porto

si sente dire che il grillo l’è già morto

larincuinfararillalero larinciunfararilla

Eran le dieci al dilà del prato

si sente dire che il grillo è sotterrato

larincuinfararillalero larinciunfararilla

questo è l’ estratto di una canzoncina da cui sono partite le domande di mia figlia di 4 anni su: morte, sepoltura, paradiso.

Non dire la verità, significa mentire.

La scelte da fare sono molteplici quando si intende rispondere.

Scegliere se dire la verità è la prima scelta.

Optato per la verità, bisogna decidere come porsi nei suoi confronti.

I genitori hanno la responsabilità dell’educazione morale dei propri figli e se non se ne occupano qualcuno lo farà al posto loro.

Ciascuno ha le proprie idee in merito alle credenze e alla spiritualità. Si può essere credenti o laici e in ogni caso si può scegliere di prendere una certa posizione verso le domande dei propri figli.

E’ onesto dire ad un bambino che non esiste una verità assoluta, ma che ciascuno sceglie la risposta che lo fa sentire meglio? Non so, ma è ciò che ho scelto di fare io.

Babbo Natale

Babbo Natale esiste se vuoi che sia così. 

Nessuno non lo sa con certezza, perché nessuno l’ha mai incontrato. 

E’ una storia che viene narrata da moltissimo tempo che rende felici grandi e piccini. Lo stesso personaggio prende nomi diversi a seconda del paese in cui vivi. Ma ovunque è un personaggio che rende magico un importante periodo dell’anno. 

Se vuoi puoi credere che esista, oppure no. 

Se ci credi, come te lo immagini? 

La morte

Quando si muore il cuore smette di battere e il corpo si spegne, non funziona più. Non entra aria nei polmoni, non circola più il sangue e gli organi si fermano definitivamente. 

Il corpo degli uomini in tutto il mondo viene sepolto o bruciato, per motivi igienici e per rispetto. Cosa succeda ai propri pensieri o alla propria anima, nessuno lo sa con certezza. Nel tempo sono nate molte storie: qualcuno ha descritto il paradiso e l’inferno come posti in cui si torna a vivere (tralascerei il concetto di premio e punizione…), qualcuno la reincarnazione: la nostra anima va ad abitare un nuovo corpo e torniamo al mondo sotto altre sembianze. 

Qualcuno ama pensare che i nonni quando muoiono diventino stelline nel cielo che continuano a guardarci. 

L’unica certezza che abbiamo è però cosa succeda al nostro corpo. 

Il resto è costruito dai popoli in base al proprio sentire, bisogno e piacere. 

A questo punto si può esprime il proprio pensiero e chiedere quello del bambino.

I genitori con forti convinzioni o credenze che desiderano tramandare ai propri figli, ritengo debbano “esporsi” offrendo la loro posizione in merito all’argomento. Ciò può non escludere comunque l’illustrazione dell’esistenza di altre tesi ed opinioni. La credenza di mamma e papà è giusto che sia conosciuta dai figli che dovrebbero potere essere coinvolti, contagiati dai valori familiari e allontanarcisi nel momento in cui sentissero di non riconoscersi.

La stessa trasparenza ed onestàè importate, a mio avviso, offrirla in ogni risposta che si da ad un bambino: “cosa succede quando si soffoca?” “cos’è il tumore del nonno?” “ma tu muori?” e così tante altre.

Ritengo i bambini molto più forti e pronti ad accogliere la verità, la differenza e l’incertezza di quanto si creda. Sanno elaborare in modo razionale e profondo attraverso importanti associazioni di idee vissuti ed emozioni di varia natura.

Ritengo non si debba sottovalutare la loro intelligenza, ma elogiarla attraverso il rispetto, la verità e l’investimento di tempo ed energia per rispondere scientificamente ed esaustivamente alle loro domande.

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“QUI ABITA UN BAMBINO”

36309641_2058925494149339_8937172166621790208_nSONO LIETA DI ANNUNCIARE L’USCITA DI

“QUI ABITA UN BAMBINO” AMBIENTI E ATTIVITA’ MONTESSORI PER FAVORIRE L’AUTONOMIA IN CASA, OGNI GIORNO

IL LIBRO NASCE DAL DESIDERIO DI RACCONTARE LA CASA, COME “NIDO” PER LA FAMIGLIA, CULLA DELLE RELAZIONI, DEI SENTIMENTI, DELLA CRESCITA, DELLO SCAMBIO, DELLE LITI E DELL’AMORE.

TRA LE PAGINE, ATTRAVERSO MOMENTI DI RIFLESSIONE, IDEE PER ATTIVITA’ E ARREDI, I GENITORI SARANNO ACCOMPAGNATI DA UNA STANZA ALL’ALTRA ACCOMPAGNATI DA QUATTRO FAMIGLIE CON  I LORO BIMBI DA 0 A 8 ANNI CHE VOGLIONO DIVENTARE GRANDI!

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Qui abita un bambino

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“La libertà, non è star sopra un albero, non e neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione” G.Gaber

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La libertà

E’ tempo di riflette sul termine libertà, su chi sia un bambino libero, su cosa comporti in termini educativi.

Spesso incontro genitori “schiavi” della libertà dei propri figli, incapaci di dire “no” credendo di limitare il proprio figlio ingiustamente e così limitano se stessi, tacciono i loro bisogni e le loro emozioni per dare spazio solo al volere dei più piccoli.

Ma la libertà è partecipazione, per essere liberi occorre saper guardare ed ascoltare gli altri. Educare alla libertà significa educare all’ascolto e al rispetto, prima di tutti di mamma e papà.

Quando si parla di bambini liberi, spesso ci si immagina un bimbo, anche molto piccolo che sceglie costantemente: cosa fare, cosa mangiare, come vestirsi, se andare a fare la spesa, se stare seduto a tavola, se prendere la macchina o andare a piedi forse decide anche per mamma e papà, se possono parlare, se devono giocare, a volte se possono addirittura farsi la doccia…

Questo però, non è un bambino bambino libero, ma un bambino cui vengono delegati compiti e responsabilità educative che non gli competono ma che dovrebbero essere in carico al genitore.

Spesso decidere per i bambini o lasciare che siano loro ad auto-gestirsi, sono scorciatoie “facili” che non prevedono la fatica dell’equilibrio.

Immaginiamo di dover rispondere ad un bambino, di 3 anni che vuole vestirsi in autonomia al mattino.

Esisto tre strade percorribili:

No, scelgo io 

Scegli pure quello che vuoi 

Puoi scegliere tra questo. (dopo aver selezionato capi adeguati alla stagione e al contesto)

La terza via è quella che richiede per il genitore, il maggior investimento di tempo e di energia, ma è anche quella più rispettosa del bambino.

Affidare ad un bambino di tre anni la gestione di un armadio 4 stagioni, consentendogli di uscire di casa a gennaio con vestiti dell’estate, non significa lasciarlo libero, ma farlo disperdere in un mare troppo vasto perché lui lo  possa governare.

Un bambino libero non è senza limitazioni, anzi conosce benissimo i confini, sa rispettarli, sa contenersi e gestire la frustrazione come la rabbia e la noia. Questi limiti gli sono stati presentati da sempre, con amore e comprensione, non come punizioni ma come aiuto alla vita.

Un bambino libero accetta il “no” perché conosce il “si”.

Egli ha sperimentato in modo graduale, commisurato alla suo grado di maturità, l’azione libera vivendosi le relative conseguenze e le eventuali frustrazioni.

Attraverso i “no” possiamo educare alla libertà. Concedendo sempre maggiore spazio al bambino mano a mano che diventa competente. Una volta che il bambino conquista un’abilità (ad esempio la capacità di salire le scale o di mangiare, o di pettinarsi) nessuno gliela potrà togliere o limitare.

Dove è libero un bambino?  Dove è in grado di gestirsi, dove sa agire senza essere irrispettoso, offensivo o doloso verso di sé, gli altri o l’ambiente.

Pretendere l’attenzione dell’adulto perché si vuole parlare in quel preciso istante è offensivo e irrispettoso. Ma il problema sta nell’adulto che lo concede: se due adulti stanno parlando ed un bambino di inserisce nella discussione pretendendo l’attenzione immediata, dovrà ricevere una limitazione.

Attendi un istante, tesoro. Sto parlando. Appena ho finito ti ascolterò.” Questa risposta non è “crudele”, ma educa alla libertà insegnando una regola sociale: la mia libertà inizia dove finisce la tua.

Il contesto giusto, per il bambino,  in cui sperimentare limiti, regole, sociali, frustrazione o rabbia è proprio quello familiare, perché in nessun altro contesto sarà mai così amato, accolto ed ascoltato, nel suo malessere.

La libertà si conquista gradualmente, i genitori devono desiderare concedere libertà ed educare bambini liberi, ovvero capaci di limitarsi per garantire e proteggere la libertà di tutti.

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L’età della socialità

brothers-1878178_960_720 I tempi dei bambini per diventare esseri sociali sono molto personali.

Alcuni bambini di due anni hanno piacere a stare con altri bambini, giocare in gruppo, salutare chi si incontra, accettare perfino una carezza, rivolgere uno sguardo o dire il proprio nome. Altri bambini, no. Preferiscono rimanere in disparte, guardare, stare a casa, salutano poco, difficilmente rispondono ad un estraneo e non si lanciano in attività di gruppo.

Genitori e maestre dovrebbero rispettare l’indole e il temperamento di ciascuno non forzando i tempi ,ma lasciando che il bambino faccia e parli quando si sente pronto a farlo.

“Saluta dai! non fare il timido! “Non essere sciocco!” “come sei! Ti ha solo accarezzato!” “vai a giocare con lei”

Forzare la socialità può rallentare il piacere a stare con gli altri.

Alcune persone si buttano in una nuova avventura senza timore, altri fino a quando non si sentono sicuri di riuscire alla perfezione nell’intento non si sbilanciano. Anche i bambini sono così. Ad esempio durante il periodo di sviluppo linguistico alcuni bambini parlano già quando il loro linguaggio ancora è incerto e poco comprensibile non spaventandosi della possibilità di non essere compresi. Altri bambini  invece, nel periodo che precede l’esplosione del linguaggio pronunciano pochissime parole solo quelle che sanno esprimere con precisione. Lo stesso può valere per la componente sociale: bambini espansivi, pronti al confronto anche in terreno poco sicuro convivono con bambini sociali ed espansivi a casa propria, con i parenti stretti ma che nel gruppo allargato si bloccano, rallentano, osservano, attendono perché non si sentono sicuri. Ciò non significa che i primi siano buoni e i secondi sciocchi,ma sono bambini con un differente temperamento ed una personale indole.

Accettare questa specificità significa permettere ai bambini di non trovarsi in difficoltà o in situazioni che non saprebbero gestire. Ecco perché sarebbe meglio INVITARE a salutare un estraneo, INVITARE a partecipare ad un laboratorio, INVITARE a giocare con un altro bambino rassicurando il bambino che non succederebbe nulla se lo facesse, che può stare sereno, senza insistere, tanto meno obbligare.

Quando il bambino si sentirà pronto e volenteroso ci proverà, lo farà e ci troverà pronti a sostenerlo e di incoraggiarlo.

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Aiutami a fare da me

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Aiutami a fare da me” è forse lo slogan più famoso di Montessori. Facilitami la vita, dandomi un ambiente accessibile ed interessante, perché io possa riuscirci con le mie forze.

Spesso è però frainteso, come molte delle sue affermazioni, purtroppo.

Vuole che le metta le scarpe, anche se è capacissimo!!!

vorrebbe che l’aiutassi a mangiare, come se ne avesse bisogno!

vuole dormire nel lettone, ma stiamo scherzando!? ognuno nel suo letto.

camminiamo e vuole essere presa in braccio, con tre anni!!!

Queste richieste altro non sono che bisogno d’amore. Ci dicessero: “Mamma, ti voglio bene”, sarebbe molto più semplice comprendere il loro gesto d’affetto..

Queste frasi celano richieste e dimostrazioni di amore.

Forse vi vedono poco, forse se non fanno “disperare” non ricevono attenzione, forse stanno crescendo e hanno un po’ paura, forse hanno solo voglia di vicinanza, di contatto con la loro mamma o il loro papà.

Aiutami a fare da me, significa altro.

Significa: cerco di fare un po’ meno perché tu possa fare di più.

Con gradualità, con buonsenso, seguendo il ritmo di crescita del bambino e non dettandone uno nostro. E’ un lavoro che va iniziato fin da subito, anche quando sostituirsi ad un cucciolo di neanche un anno non peserebbe affatto. Quella sostituzione, però, pesa al bambino, allo sviluppo della sua autostima e della fiducia in se stesso. Le abilità acquisite non le sente totalmente come proprie e sarà abituato a dipendere dagli stimoli ed indicazioni esterne. “E adesso? cosa devo fare? cosa posso imparare?”.

Ti aiuto quanto serve.

Dobbiamo cambiare il pannolino: sai toglierti le calzetta solo? bene, fallo tu, io farò il resto.

Dobbiamo mangiare: due bocconi li puoi mangiare da solo? bene, io ti darò gli altri.

Dobbiamo allacciare la giacca? bene, io inserisco la cerniera nel cursore e tu la tiri su.

facciamo un pic-nic? le tue mani e bocca piccole hanno bisogno di un panino piccolo? ti farò un panino morbido e piccolo perché tu possa mangiarlo da solo, come me.

Il mio aiuto descresce in proporzione alla tua conquista di autonomia, non so come, quando, di quanto, ma questa è la strada e sarai tu, bambino mio, a guidarmi.